Who Made My Clothes? Miami celebra la Fashion Revolution

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Aprile 2013, Savar, sub-distretto di Dakha, capitale del Bangladesh. 

A seguito della presenza di crepe nell’edificio Rana Plaza, sede di una banca e numerosi negozi ubicati ai primi piani dello stabile, gli operatori sono invitati a non rientrare il giorno successivo. Informazione questa volutamente rivisitata dai proprietari delle fabbriche tessili agli operai che occupano i piani superiori e che di conseguenza torneranno a lavorare il giorno successivo, ignari di quanto sta per accadere.  

Diverse fabbriche, qualcuna irregolare qualche altra no, quel che è certo è che la struttura del Rana Plaza, di proprietà di Sohel Rana, membro di spicco del partito politico della Lega Popolare Bengalese, non era predisposta ad accogliere fabbriche poichè l’edificio non era stato costruito per sostenere il peso e le vibrazioni dei pesanti macchinari tessili, per lo più in considerazione del fatto che agli iniziali 5 piani ne erano stati aggiunti 3 abusivi.

23 Aprile 2013, ore 08:45 am. Il Rana Plaza crolla: 1138 operai tessili morti, 2515 operai feriti estratti vivi dalle macerie, alcuni dei quali hanno poi contribuito nella ricerca dei sopravvissuti: uomini, donne e bambini. Bambini impiegati come lavoratori e bambini lasciati al nido aziendale interno. 

Quello del Rana Plaza verrà ricordato come il più grande cedimento strutturale accidentale della storia umana, così come il più grande incidente mortale in una fabbrica tessile. 

Diversi i marchi di abbigliamento per i quali queste fabbriche producevano: Auchan, Primark, Sears,  Walmart, El Corte Ingles, Benetton per citarne qualcuno. 

E prima del Rana Plaza molti altri fra questi: 2012 Tazreen Fashion, ad Ashulia altro sub-distretto di Dakha, un corto circuito vicino ad un filato di fibre sintetiche innesta un incendio, 117 morti e oltre 200 feriti; sempre 2012, Alì Enterprises, Karachi, Pakistan: un incendio provoca 254 morti e 55 feriti. Si potrebbe continuare per pagine nella lunga serie dei necrologi legati allo sfruttamento e si potrebbe continuare ininterrottamente in questo triste cronologio. Quel che è certo è che tra insurrezioni, manifestazioni e proteste altre 18 fabbriche d’abbigliamento furono  chiuse nei mesi successivi, Sohel Rana fu arrestato insieme ai proprietari delle fabbriche inquisite per poi finire nel pagamento di una cauzione di 6 mesi e nuove misure di sicurezza che furono prima predisposte, poi revisionate e infine alleggerite. 

Il 5 giugno 2013 la polizia aprì il fuoco su centinaia di ex lavoratori e parenti delle vittime del crollo, che protestavano per avere gli arretrati, i risarcimenti promessi dal governo e un aumento salariale rispetto ai 38 $ mensili per i quali le 1138 persone lavoravano in condizioni di schivitù perdendo la vita. 

38$ mensili: La schiavitù al mondo attuale.

 

Dal crollo del Rana Plaza numerose campagne di sensibilizzazione alla produzione e acquisto consapevole si sono attivate fra queste il Fashion Revolution, si è distinto per essere il movimento globale no-profit che ha saputo coinvolgere, e coinvolge tutt’ora, migliaia di persone nel mondo che rispondono alla domanda: “Who made my clothes?” –Chi ha fatto i miei vestiti?- 

Il Fashion Revolution ha designato ad anniversario di nascita il disastro del Rana Plaza la cui risonanza mediatica è stata tale da poter dare la necessaria svolta al settore tessile favorendo il fare moda in maniera etica nel rispetto delle persone e dell’ambiente. Carry Somers and Orsola de Castro, co-fondatrici del movimento e per oltre 20 anni impegnate nel settore moda britannico, hanno dichiarato che fino a che ogni cosa nell’industria della moda, sarà focalizzata sul profitto, i diritti umani, l’ambiente e i diritti dei lavoratori saranno destinati ad avere un ruolo marginale che porta non solo sofferenza e fame ma anche alla morte. Fashion Revolution si impegna per costruire un futuro nel quale incidenti del genere non succedano mai più: conoscere chi fa i nostri vestiti è il primo passo per trasformare l’industria della moda che richiede trasparenza, apertura, onestà, comunicazione e responsabilità. Riconnettere i legami rotti e celebrare la relazione tra clienti e le persone che producono i nostri vestiti, le nostre scarpe, gli accessori e i gioielli. Tutto ciò che alla fine chiamiamo fashion.

.Dal 2016 la giornata di Fashion Revolution è diventata la Week Fashion Revolution, dal 18 al 24 Aprile, che ha coinvolto oltre 90 paesi nel mondo. Questa prima fase della rivoluzione in ambito  fashion è iniziata con la Fashion Question Time presso le Camere del Parlamento del Regno Unito e con il lancio della prima edizione del Fashion Transparency Index che ha coinvolto 40 tra le maggiori aziende di moda a livello mondiale che hanno messo in luce  informazioni relative alle loro catene di approvvigionamento. 

Nell’aprile 2016 la Fashion Revolution ha raggiunto 22 milioni di followers che hanno risposto alla domanda “Who made my cloths?” ribadendo l’hastag: “I made your cloths!”.  

Giunta alla sua quinta edizione nel 2018, la settimana della Rivoluzione della Moda si è svolta a livello mondiale dal 23 al 29 aprile e secondo Marina Spadafora ambasciatrice italiana dell’organizzazione, “il Fashion Revolution vuole essere il primo passo per la presa di coscienza di ciò che significa acquistare un capo d’abbigliamento, verso un futuro più etico e sostenibile per l’industria della moda, nel rispetto delle persone e dell’ambiente”.   

A Miami il Fashion Revolution  si è svolto il 28 aprile 2018 presso lo Sharron Lewis Design Center, organizzato da Nathalia Orquera blogger di “Maria Loves Green” and Colleen Coughlin of “The Full Edit” è stato patrocinato dalla Global Fashion Exchange di Patrick Duffy ed ha visto coinvolti personaggi del fashion show di Miami e i proprietari di alcuni dei negozi più esclusivi della città che nascono ed operano in conformità ad etica, sostenibilità e trasparenza nel settore moda, fra questi Sophie Zembra di Antidote, Karelle Levy di KRELwear,  Veronica Pesantes di The Onikas, Caroline Colleen Coughlin di The Full Edith, Caroline K di Carolina Kleinman, Valeria Savino di The Nomad Tribe; oltre a loro  Francesca Belluomini, scrittrice fashion blogger e autrice del libro “The cheat sheet of Italian Style” e la blogger Nathalia Orquera.  

La giornata si è aperta con un panel di discussione tra opinioni, domande e risposte, dal quale sono emerse problematiche relative non solo alla manodopera che lavora in condizioni di schiavitù, alla necessità di un controllo di filiera e all’impiego di materiali eco-sostenibili ma è emersa anche la necessità di dare soluzioni e risposte allo smaltimento dei rifiuti in ambito tessile che soprattutto il low-fashion con le sue dinamiche vitali e distorte fa della rapidità del riassortimento una delle chiavi fondamentali del successo: negli ultimi 15 anni l’incremento dei redditi a livello globale e la diffusione di una moda “veloce” che offre prezzi inferiori, con un numero di collezioni pari a 10/12 collezioni annuali, fornisce i trend del momento modo praticamente contemporaneo.

Per quanto la vendita al dettaglio, l’ampia disponibilità di capi di abbigliamento sempre diversi nello stile e con costi accessibili induce all’acquisto seriale e all’accumulo di abiti e vestiti negli armadi con il rischio di congestionare lo smaltimento degli stessi che finiscono poi nell’immondizia. Il seguire continuamente nuovi stili a cui omologarsi, hanno portato la produzione di abbigliamento a raddoppiare, passando dai 50 miliardi di pezzi nel 2000 agli oltre 100 miliardi nel 2015; parallelamente la media di utilizzo di ogni capo è diminuita del 36%, con un picco del 70% in Cina. Un totale di 460 miliardi di dollari di valore che potrebbe essere riutilizzato e che invece finisce nelle discariche e negli inceneritori perché meno dell’1% del materiale utilizzato in produzione viene riciclato in nuovi vestiti. Per quanto riguarda invece la distribuzione all’ingrosso il problema compie un giro più lungo: gli abiti invenduti finiscono negli outlet, poi nei vari Marshall, TJ-Max o Dress for Less, dove l’invenduto viene mandato nei paesi poveri creando problematiche notevoli sull’economia locale che non è più incentivata ad acquistare poichè si ritrova con tonnellate di prodotti gratuiti, pronti all’uso che alla fine si ritrovano da smaltire. Per questo motivo molti dei brand owner che stanno concentrando i propri sforzi sulla promozione di un concetto di produzione responsabile e sostenibile arriveranno presto a lavorare anche sull’aspetto della gestione del fine vita dei prodotti in quanto i numeri del tessile sono da capogiro ed il settore è secondo, per inquinamento da smaltimento dei rifiuti, solo al petrolio. 

Trascurando i soli effetti sociali, l’impiego nel settore tessile nei paesi sottosviluppati è spesso sinonimo di retribuzioni basse, ore lavorative esagerate, lavoro minorile e condizioni di schiavitù. Il Bangladesh, uno dei paesi più poveri del mondo, ha basato gran parte della sua economia sull’export di abbigliamento per i grandi magazzini europei e nord americani: con un valore delle esportazioni di 72 miliardi di dollari, si piazza terzo in questa classifica dopo Tailandia ed India, definite con il Bangladesh “i sarti del mondo” e può essere considerato tra i vincitori della libera competizione globale scatenata dalla fine dell’Accordo Multifibre, quello che regolava gli scambi internazionali con il meccanismo delle quote. Il Bangladesh importa più dell’80% di cotone sotto forma di filato. Una volta processato nelle fabbriche richiede più di 100 operazioni diverse prima di essere trasformato in indumento. Ritardi sulle consegne comportano la deduzione del 5% da parte degli acquirenti per ogni settimana di ritardo.

Qualche numero: L’industria dell’abbigliamento si presenta come un business da 1.3 trilioni di dollari fatturati, dà lavoro a più di 300 milioni di persone nel mondo, fa uso di più di 98 milioni di tonnellate annuali di risorse non rinnovabili, compreso il petrolio per produrre le fibre sintetiche, i fertilizzanti per le piantagioni di cotone, i prodotti chimici per produrre, tingere e rifinire fibre e tessuti. 93 miliardi, sono invece i metri cubi di acqua che contribuiscono a peggiorare gli eventi di siccità con l’emissione di circa 1.2 miliardi di tonnellate di CO2 e 500mila tonnellate di fibre di microplastica riversate negli oceani.

Stando cosí le cose, i pronostici per il 2050 non sono incoraggianti: Il consumo di risorse non rinnovabili schizzerebbe a 300 milioni di tonnellate e 22 milioni di fibre di microplastica verrebbero riversate negli oceani.

Affinchè tutto ciò finisca è necessario che tutte le persone del mondo si facciano delle domande, abbiano voglia di conoscere, di fare qualcosa perchè l’acquisto è l’ultimo click nel lungo viaggio che coinvolge migliaia di persone: la forza lavoro invisibile dietro ai  vestiti che indossiamo.

Rifiuti e riciclo sono stati argomenti caldi durante il Fashion Revolution poichè parlare di riciclo è uno dei punti chiave della moda ecosostenibile e si collega alla riduzione minima degli scarti perché si cerca di riutilizzare tutto il possibile e di buttare via solo lo stretto necessario. Come propone la Ellen MacArthur Foundation di sostituire il modello lineare con quello di economia circolare, iI nostri indumenti possono avere un’altra chance grazie alla creatività che li riporta in vita sotto nuove forme.  Ci sono aziende, come The Nomad Tribe, di Valeria Savino, che riutilizzano direttamente i capi prelevati dalle apposite aree o che addirittura li raccolgono porta a porta per poi tagliarli e ricucirli dando vita a giubbotti, giacche, salopette e jeans in modo assolutamente innovativo e non convenzionale, capi per lo più anche reversibili.

 

The Full Edition, brand ideato nel 2013 da Colleen Coughlin, dopo aver lasciato Victoria Secret, utilizza pneumatici usati coi quali realizza collane,  bracciali e borse di plastica  semi-rigide che diventano top davvero cool.

   

Sophie Zembra seleziona per la sua boutique solo brand che rispondono ai requisiti di sostenibilità: che siano eco-friendly, che provengano dal commercio equo, artigianale e sociale, utilizzino materiali riciclati e siano fatti effettivamente in USA da artigiani americani che operano in conformità a tutto ciò e, ultimo, ma non per importanza, che non implichino l’utilizzo di animali, perchè anche i diritti animali sono molto importanti, ed il primo passo richiesto è la sostituzione delle pellicce animali seguito poi dalla sostituzione di altri materiali come le piume o la lana. 

Strisce di tessuto scartate in fase di lavorazione diventano splendidi e colorati pendenti per Veronica Pesantes e la sua socia Jonnika, compagne di liceo, poi co-fondatrici di The Onikas che acquistano capi di abbigliamento dall’India all’Ecuador, dove abili stampatori incidono blocchi in legno secondo i disegni forniti e poi utilizzati per personalizzare i loro  tessuti.

Karelle, di Krelwear sostiene di avere una riduzione degli scarti pari a zero poichè seleziona personalmente i fornitori di filati che arrivano in filari al suo atelier e li lavora come da richiesta del cliente. Durante il Fashion Revolution, ad esempio, ha realizzato un top di quickie couture -capo di abbigliamento fatto in brevissimo tempo, un’ora di solito- su richiesta, con un telaio circolare. Da artista laureata alla School of design di Rhode  Island Karelle riutilizza ritagli e scarti meravigliosamente lavorati e coloratissimi per dar luogo a vere e proprie opere d’arte di grandi dimensione, come quella esposta dietro al  panel di discussione degli ospiti. 

Carolina K. di Carolina Kleinman invece preferisce conoscere personalmente i propri fornitori facendo audit di primo grado in giro per il mondo, principalmente in Messico, Perù e India che oltre a regalare stralci di meravigliosa umanità consentono ai nostri abiti di essere identificati nelle persone con un nome e un volto.  

 

Carolina Kleinman e Rosita a Cusco, 2006.

Partendo dall’uso di stoffe ecologiche, fra questi lino e seta, molte aziende negli ultimi anni hanno iniziato a usare stoffe ecologiche per i loro vestiti. Ci sono quindi tante alternative per fare moda sostenibile, etica, o green come dir si voglia: acquistare da artigiani per favorire i prodotti locali e il commercio equo e solidale o preferire gli abiti di seconda mano, vintage e donare quelli che non si utilizzano più. A tal proposito all’interno del Fashion Revolution Miami è stato allestito un clothing swap, uno scambio di vestiti in cui si lascia uno o più capi in buone condizioni e si prende il medesimo numero di capi lasciati appartenenti a qualcun altro, secondo Patrick Duffy del Global Fashion Exchange, è una delle modalità migliori per favorire il riciclo degli indumenti, quel che non è scelto è raccolto e poi riciclato. Il goal complessivo annuale mondiale è quello di raccogliere 1 milione di libbre. (500.000 Kg) di abbigliamento a livello mondiale durante l’anno e solo a Miami il Fashion Revolution ha raccolto 125 pounds di vestiti nella giornata di sabato.

 

È ora di comprare abiti prodotti nel rispetto dell’ambiente e dei lavoratori, cercare di adottare uno stile che trascenda i trend del momento e favorire tessuti resistenti e di qualità, in modo da diminuire il ritmo degli acquisti e comprare meno abiti, meno spesso, in modo da risparmiare soldi e sprechi. E quando si hanno tempo, strumenti e capacità, darsi al fai-da-te: ricavare abiti nuovi da vestiti vecchi, personalizzare capi anonimi per renderli unici. 

Tutto questo sistema di fare moda rientra nella definizione di “economia circolare” data dalla Ellen MacArthur Foundation, che ben si discosta dalla “economia lineare”. Se nell’economia lineare il prodotto è la fonte della creazione del valore i margini di profitto sono basati sulla differenza fra prezzo di mercato e il costo di produzione, per aumentare i profitti si punta a vendere più prodotti diminuendo i costi di produzione Nell’economia circolare il prodotto è focalizzato sulla fornitura di un servizio e la competizione è basata sulla creazione di un valore aggiunto del servizio di un prodotto e non solo sul valore della sua vendita. I prodotti sono parte degli asset dell’impresa e la responsabilità estesa del produttore guida la longevità del prodotto, il suo riuso, la sua riparabilità e la sua riciclabilità.

Le storie nascoste dietro i nostri vestiti nascondono molto più di quanto siamo disposti a vedere o a pagare ed è solo il nostro potere di acquisto che può fare la differenza. Il nostro modo di acquistare meno, trovando per i nostri capi soluzioni creative alternative che siano in grado di dare nuova vita all’indumento riciclandolo in altro o donandolo a chi si preoccupa di ridurre al minimo gli scarti di lavorazione è una valida alternativa alla causa. 

Oggi giorno si parla di un target di persone con una buona cultura, informate e sensibilizzate sull’argomento, la speranza è quella di diffondere a un pubblico sempre più vasto questi principi, a partire dalle scuole di moda alle università, che alla fine riguardano tutti perchè di storie da narrare ne indossiamo una tutti i giorni a lieto fine o meno. 

Sta a noi fare la scelta giusta, nel frattempo guardatevi il video-documentario del The Guardian “Shirt on your back” riguardo il disastro del Rana Plaza.

 

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