L’interazione tra uomo e natura al Nevada Museum of Art di Reno, Nevada.

This post is also available in: en es

Il Nevada Museum of Art, è allestito nel Donald W. Reynolds Center for the Visual Arts a Midtown Reno, “The Biggest Small City in The World”, come recita l’iconica scritta, ed è l’unico museo d’arte del Nevada accreditato dall’American Alliance of Museums (AAM). 

The Nevada Museum of Art, Reno by William P. Bruder Architect Ltd

Allestito nel grande edificio progettato dallo studio di architettura William P. Bruder Architect Ltd, dell’omonimo e celebre, architetto, il museo fa riferimento alle formazioni geologiche del vicino Black Rock Desert e oltre ad essere risorsa educativa, funge da metafora visiva per l’attenzione accademica dell’istituzione sull’arte e l’ambiente, in considerazione anche della sua posizione geografica.

L’edificio è caratterizzato da una struttura imponente color titanio/nero carbone, -l’ANTHRA-ZINC- che ne esagera la forma. L’ANTHRA-ZINC è zinco pre-patinato, un materiale realizzato trent’anni fa dall’azienda VMZINC per rivestire scossaline e pluviali per i tetti in ardesia. Con il tempo questo materiale del forte impatto visivo è stato utilizzato dagli architetti anche per ornare le facciate delle pareti.

Always Was Always Will Be by Reko Rennie, 2019

Il museo, che vanta una superficie di 70.000 metri quadrati distribuita su quattro livelli, è considerata una delle realizzazioni architettoniche più importanti del Nevada. La collezione permanente del museo è suddivisa in quattro aree tematiche: Fotografia del paesaggio alterato, Arte del Grande Ovest, Arte contemporanea ed Etica del lavoro. Inoltre il Center for Art + Environment Archive Collections e la biblioteca -che ospitano più di 130 archivi composti da più di un milione di oggetti e da oltre 7.500 libri- servono studiosi e ricercatori fornendo loro informazioni relative alle interazioni creative tra le genti e i loro ambienti naturali, costruiti e virtuali.

Untitled by Lorenzo P.Latimer, 1986. Watercolor on paper. Private Collection

All’ingresso dell’edificio c’è il grande murale site-specific realizzato nel 2019 da Reko Rennie, dal titolo: “Always Was Always Will Be”,che l’artista ha realizzato attingendo dalle proprie origini australiane combinate all’arte dei graffiti. Attraverso elementi di design ripetitivi e il camouflage l’artista sottolinea in quale modo gli aborigeni australiani hanno dovuto nascondersi e nascondere la loro identità.

Untitled by Nevada Willson, 1916. Watercolor on paper. Private Collection.

In occasione della celebrazione dei 90 anni dalla sua  fondazione il Nevada Museum of Art ha allestito la mostra: “The Latimer School: Lorenzo Latimer and the Latimer Art Club”.  L’esposizione riunisce i dipinti di paesaggio del pittore acquerellista Lorenzo Latimer, accanto a quelli delle artiste a cui fece da mentore e che fondarono, cento anni or sono, il Latimer Club, tutt’ora attivo. Fra loro: Mattie S. Conner, Marguerite Erwin, Dora Groesbeck, Hildegard Herz, Nettie McDonald, Minerva Pierce, Echo Mapes Robinson, Nevada Wilson e Dolores Samuel Young.

Some of Nattie McDonald’s works

Il Latimer Club è stato il predecessore della Nevada Art Gallery, alla quale si era unito lo scienziato del clima, umanista e amante dell’arte, Dr. James Church e che è diventato in seguito il  Nevada Museum of Art. L’istituzione prende il nome dal pittore, originario di San Francisco, Lorenzo Latimer, che visitò per la prima volta il Fallen Leaf Lake sul lato sud del lago Tahoe nell’estate del 1914. Da lì iniziò a dare lezioni annuali di pittura plein air. Nel 1916, fu invitato da due studenti a tenere un corso di pittura a Reno e face ritorno per i venti anni successivi. I dipinti ad acquerello di Latimer e dei suoi studenti sui Truckee Meadows, la Washoe Valley, il lago Tahoe e il lago Pyramid sono fondamentali per la storia della tradizione della pittura all’aperto del Nevada settentrionale.

In tema di ambiente non stupisce che nel 2016, il Center for Art + Environment del Nevada Museum of Art ha acquisito l’archivio di Gianfranco Gorgoni, fotografo di origini italiane, scomparso nel 2019 e conosciuto come il principale documentarista della Land Art. 

Spiral Jetti de Robert Smithson by Gianfranco Gorgoni

Gorgoni, arrivato in America con l’intenzione di rimanere per un breve periodo, ha vissuto negli Stati Uniti per la maggior parte della sua vita dopo aver conosciuto Leo Castelli che lo ha introdotto ad artisti come: Michael Heizer, Robert Smithson, Nancy Holt, Walter De Maria, Carl Andre, Joseph Beuys, Richard Serra, Christo e Jeanne-Claude. Nato come ritrattista Gorgoni è stato il primo fotografo a collaborare con questi artisti che realizzavano opere nel West americano e le sue immagini sono servite spesso come documentazione fotografica definitiva dei loro progetti innovativi: gli Earthworks del ventesimo secolo. 

A portrait by Gianfranco Gorgoni

In esposizione con il titolo sommario di, “Land Art Photographs” ci sono oltre 50 opere di grande formato di Gorgoni, fra le quali: Running Fence, di Christo and Jean-Claude; Spiral Jetti, di Robert Smithson; Roden Crater Low Aerial Oblique Looking Toward N.E. di James Turrell e Seven Magic Mountains di Ugo Rondinone. 

Gorgoni ha fissato nelle sue immagini i più grandi artisti di Land Art, che hanno interagito con la madre terra e le popolazioni indigene -solo lo stato del Nevada si compone, a livello federale, di 27 tribù indigene-  in maniera del tutto soggettiva: rimarcandola, interpretandola, manipolandola o semplicemente realizzando opere d’arte con i pigmenti che la terra mette a disposizione.

Immolation by Judy Chicago, from Women and Smoke, from the portfolio Atmospheres, 1972

Sempre affine al tema dell’ambiente è la mostra: ”Judy Chicago: Dry Ice, Smoke, and Fireworks Archive”. L’artista, che ha avuto una grande retrospettiva nel 2019 all’ICA-Institute of Contemporary Art- di Miami, a partire dal 1968 ha intrapreso una serie di performance effimere dal titolo “Atmospheres” con le quali, utilizzando fumi colorati e fuochi d’artificio nei deserti dell’Ovest americano, cercava di “ammorbidire la scena macho della Land Art”, come lei stessa l’ha definita. Un vero e proprio contrappunto critico per i Land Artists, prevalentemente maschili, che hanno lavorato nel deserto durante gli anni ’60 e ’70. Questo è in sostanza il motivo per cui il Nevada Museum of Art si è assicurato, nel 2018, l’acquisizione del intero archivio di fuochi d’artificio di Judy Chicago per la collezione del Center for Art + Environment. Per l’esposizione Judy Chicago ha rivestito, con i colori che caratterizzano le sue opere, un intero muro all’interno del museo. 

The Garden of the Sculptures on the terrace

Sfortunatamente la neve caduta in questi giorni ha impedito l’accesso al giardino delle sculture sul terrazzo dell’edificio e pertanto visibile solo dalle grandi finestre. Il giardino delle sculture è  architettonicamente delimitato dai bordi dell’edificio che si estendono a rastrello verso il cielo, dove il ritmo sincopato delle merlature del parapetto a ovest incornicia la città, il cielo e la vista in lontananza del Black Rock Desert.

Judy Chicago’s murale

(on the title, The Latimer School: Lorenzo Latimer and the Latimer Art Club

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *