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Tra le opzioni artistiche che la città di Miami può vantare c’è anche la possibilità di entrare a far parte della Fountainhead Residency, una residenza anni ’50, un luogo dove ispirare e lasciarsi ispirare, completamente immersa nella natura, irrorata dalla luce naturale che entra dalle vetrate e perfettamente inserita nella comunità locale della quale è parte. Fondata nel 2008 la Fountainhead Residency è una società no profit supportata dal contributo di alcuni benefattori tra i quali la Knight Foundation e la Jorge M. Perés Family Foundation e diretta da Kathryn Mikesell consiste nella messa a disposizione di una casa-studio nella quale ogni mese, tre, quattro artisti hanno la possibilità di vivere condividendo gli spazi comuni. Un periodo nel quale produrre in modo assolutamente libero, presenziando a conferenze, partecipando ad eventi, visitando musei, gallerie e collezioni private. Oltre a tutto questo, periodicamente ci sono incontri nei quali gli artisti ospiti fanno un excursus sulle loro esperienze di vita e il loro modo di concepire l’arte.
La Fountainhead Residency accoglie sia artisti nazionali che internazionali e questo mese tra i suoi coinquilini ci sono stati la colombiana Ana Maria Devis, il californiano Asad Faulwell e la sudafricana Tony Gum.
Ana Maria Devis, è un‘artista plastica, originaria di Bogotà, con all’attivo studi in incisione e scenografia. Ha stravolto la propria produzione artistica dopo essere rimasta incinta della prima figlia, alla quale poi ne è seguita una seconda. Il suo concetto di arte è sostanzialmente legato al concetto di donna come contenitore: uno stravolgimento di prospettiva nella quale ogni madre e donna si ritrova a fare i conti in modo più o meno diretto. Ha composto un libro pop up nel quale questo concetto di donna-contenitore assume un significato che va oltre la percezione personale combinandosi all’anatomia con richiamo, nella composizione illustrativa, al fashion. Artista multidisciplinare le sue opere spaziano dal disegno alla pittura, dalle video-installazioni alla fotografia e inglobano elementi di anatomia, archeologia e biologia. Mixare le discipline non è una cosa nuova per Ana Maria che considera l’arte un mezzo da sfruttare all’ennesima potenza: per lo studio di arte contemporanea con sede a Bogotà, la Flora Ars+Natura, ha composto un disegno di grandi dimensioni con dei timbri di gomma (da lei realizzati) nel quale ha combinato le pettinature della gente africana Palenque (stanziate sulle coste colombiane) con i modelli tipologici delle impronte digitali, con i quali ha realizzato una sorta di mappa di fuga dalla schiavitù, di grandi dimensioni. Nel 2016 ha lavorato al progetto La Mujer Tortuga, un progetto che le ha richiesto 3 anni di impegno, durante i quali ha sezionato i carapace di tartaruga (precedentemente morte) che ha sezionato e studiato chiedendo a 70 donne di pensare a cosa avrebbero messo se fosse stata la loro casa. Sulle base dei feed back ottenuti ha realizzato dei disegni realizzati dal vivo nello studio-vetrina visibile al pubblico che è stato trasformato in un laboratorio archeologico diventando un vero e proprio catalizzatore sociale: il mezzo che collega il lavoro bidimensionale dell’artista con l’azione-reazione dello spettatore. La produzione delle immagini è la narrazione di entità destrutturate e ricostruite attraverso l’esperienza della conoscenza fatta in prima persona. Fra gli ultimi lavori di Ana Maria Devis, Second Skin, l’artista ha utilizzato i fazzoletti struccanti usati (collezionati per oltre due anni) e colorati con gli strumenti del make-up quotidiano, rossetto, mascara, fondotinta, che ha poi ritagliato come fossero petali. Li ha combinati con capelli veri e sintetici, come da tradizione delle popolazioni sudamericane, rendendo la traccia del nostro essere come una mappa, una matrice attraverso la quale ricostruire le tappe della nostra esistenza. I fazzoletti struccanti diventano un pezzo del nostro essere stati e con il loro assemblaggio ha realizzato un guanto da indossare, Ha inoltre realizzato bozzetti di vestiti da indossare per l’appunto come una seconda pelle: un filo conduttore tra presente e passato.
Asad Faulwell è un artista californiano, che vanta esposizioni in importanti musei e collezioni, fra i quali il Columbus Museum of Art, il Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City e la Rubelll Family Collection di Miami.
Il suo corpus opere recente, Les Femmes D’Alger, si ispira al film la Battaglia di Algeri di Gillo Pontercorvo, e punta in particolare i riflettori sulle donne che hanno combattuto per l’Indipendenza dell’Algeria dalla Francia. Nelle opere astratte ma figurative di Faulwell, i visi delle donne sono visi reali, tratti da fotografie scattate in diversi periodi delle loro vite, compresi i momenti nei quali alcune di loro hanno presenziato ai processi nei tribunali. I volti, le figure irrompono dagli sfondi colorati dello spettro, al limite dello psichedelico, che ne enfatizzala fisionomia togliendole all’anonimato e legandole simbolicamente al ricordo. Sono donne che soffrono, donne violate e schernite che combattono con il popolo algerino contro l’occupazione francese e allo stesso tempo anche contro lo stesso popolo maschile algerino per le quali si battono e dal quale sono rinnegate. Lasciate sole in un paese che non le considera al pari dell’uomo le donne acquistano nelle opere di Faulwell la dignità che gli spetta, uscendo dall’anonimato. Le tele combinano volti dagli occhi vuoti, puntellati e sanguinanti, a texture differenti che miscelano collage e tecnica mista. Frequente è l’utilizzo delle puntine da disegno che sono inflitte all’interno dell’opera e colorate minuziosamente fino a diventare parte del tutto. Faulwell utilizza anche il puntinismo, arrivando a comporre opere con 15 mila punti frutto di un processo meccanico che lo strema. Mentre la figura, in seguito più di una, spicca in primo piano, lo sfondo richiama ornamenti antichi a metà fra la religione e la pittura delle corti reali che donano all’immagine un significato devozionale a queste donne che sono nello stesso tempo vittime e colpevoli. Un lavoro certosino nel quale Asad Faulwell ricrea storie dentro la storia, una parte per il tutto per cui le tele diventano combinazioni enigmatiche che rivelano particolari non sempre immediati all’occhio dell’osservatore: Storie con un prima e con un poi, racconti di sogni e di speranze che si schiantano contro una realtà che le vicissitudini storiche hanno dimostrato non essere in grado di equiparare l’importanza della donna all’uomo. Ad adornare le immagini ci sono particolari del viso, che si stagliano nell’opera come una greca: Occhi per lo più, quelli della moglie o ancora i suoi e quelli della moglie alternati, che osservano lo scorrere degli eventi, il dramma femminile che si compie dentro al dramma della battaglia. Battaglia di Algeri e battaglia che continua all’infinito nella quotidianità del XXI secolo.
Rappresentata dalla Christopher Moller Gallery, nella sua città natale, Cape Town, Tony Zipho Gum è considerata invece una promessa dell’arte sudafricana sulla quale investire ed una fra le quindici artiste femminili che stanno cambiando il mondo. Nelle sue composizioni artistiche per lo più immagini fotografiche, compare sempre lei, in prima persona nell’eterna dicotomia che legano il suo essere donna di origini tribali, all’essere donna nel XXI secolo con tutto quello che l’epoca si porta a seguito, femminismo, globalizzazione e preconcetti inclusi. Le sue immagini piene di grazia combinano la figura della donna africana con gli indumenti e gli accessori tradizionali all’immagine del brand globale per eccellenza, la coca cola. Nella serie di opere Black Coca Cola del 2015 Tony Gum miscela abilmente l’immagine della cultura nera sudafricana con i prodotti coca cola: la sua figura aggraziata compare vestita da Pin Up (immagine prettamente americana) da donna africana che porta sulla schiena la tradizionale fascia porta-bimbo al quale è stata però sostituita la bottiglia coca cola significato che ci riporta al tema della globalizzazione Nella serie Ode to She, compare invece a torso nudo, adornata con perline tradizionali e imbaola, la tradizionale argilla naturale che serve per cospargere il corpo e che la veste nella trasformazione da giovane donna a vecchia signora mentre i i simboli inequivocabili del nostro secolo (il cellulare nell’atto di scattare un selfie e la macchinetta del caffé) cadenzano il ritmo del passaggio.
Fra i lavori composti, c’è anche un approccio alla scultura, che conserva per sé fino che sarà “pronta a mostrare questa parte intima al mondo”. La serie, si compone di fotografie che ritraggono un calco della sua immagine a mezzobusto combinata all’elemento che differenzia i clan sudafricani: l’acconciatura o l’utensile caratteristico che ripercorre usi, significati e tradizioni delle popolazioni tribali.
L’opera proposta per la Fountainhead Residency si ispira ad una fotografia della serie composta nel 2019 e nella quale posa con il suo gatto nero, Diesel. E se è vero che la stupidità e l’ignoranza sono il vero flagello dell’umanità, la superstizione relativa al gatto nero, che rappresenta fisicamente la paura verso ciò che non conosciamo, solo perchè incompreso (e con il rischio di farci diventare vittime di noi stessi) si scontra nelle sue immagini contro esoterismi e credenze. Nelle sue fotografie infatti la sua persona si fonde in un tutt’uno con il gatto che tiene fra le braccia e del quale assume persino le fattezze degli occhi. Durante la sua permanenza alla Fountainhead Residency ha composto un’opera che richiama per forma a grandi volumi una sua composizione fotografica adornata con materiale tessile rosso che lavora a telaio.
Tanti punti di vista, tante tecniche artistiche combinate che emergono anche grazie alla condivisone dei momenti di scambio intimi come quelli proposti dalla Fountainhead Residency e dalla sua co-fondatrice e Direttore Esecutivo Kathryn Mikesell.
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