Il Purple Poem for Miami, e il manifesto artistico del femminismo secondo Judy Chicago.

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Onore al merito di un’artista che ha saputo educare il pubblico all’arte femminile fissandola nella storia con il rispetto che merita. A Purple Poem for Miami è stato molto più dei fumogeni e fuochi d’artificio che Judy Chicago ha regalato alla città di Miami con la sua smoke-performance, fra le sue opere più celebri. L’opera, organizzata dall’ICA e sponsorizzata da Max Mara incorona Judy Chicago sulla scena di Miami, con la partecipazione ad Art Basel e con l’esibizione di una personale che ne ripercorre quarant’anni di storia: Judy Chicago: A Reckoning, aperta fino al 14 Aprile all’ICA. Nell’esposizione sono in evidenza, oltre alla forza delle sue opere, il passaggio dall’arte astratta all’arte figurativa e soprattutto la sua forza dirompente che le è valso il termine di pioniera del femminismo artistico, onorando il posto che le spetta nella storia dell’arte. Tante opere che hanno rappresentato i vari tasselli di cui la sua storia artistica si compone: dalle sculture minimaliste colorate al femminile, ai cofani delle macchine, ai disegni dei progetti Birth ed Holocaust passando per Powerplay fino a concentrarsi sull’opera proposta per la prima volta negli anni ’60 che la riporta ai tempi delle Atmosphere di Pasadena quando vestiva di colori l’aria californiana e dei quali ammette: “L’idea di poter fare oggi giorno qualcosa del genere, senza chiedere autorizzazioni, sarebbe impensabile”. Un susseguirsi continuo di volumi viola, blu, rosso e rosa, che si sono succeduti uno via l’altro per un totale di 5 minuti di performance, in un crescendo surreale di volumi e fumi colorati, che hanno avvolto completamente Jungle Plaza e i suoi ospiti accorsi per celebrare la bellezza e il genio ribelle di Judy Chicago.  

Artista eversiva e multidisciplinare, Judy Chicago, nella vita pare non essersi lasciata condizionare da niente e da nessuno, e quando parla ci si trova inevitabilmente a considerare che l’asprezza nei confronti della vita e delle regole, che emerge dalle sue opere, è insita in ogni cosa di lei: dal colore dei capelli sfumati dal bianco al viola, che cambia regolarmente, alla risposta pronta e frizzante fino alla voce stridula tradita dalla risata sonora. È come se il suo rifiuto alle regole e alle etichette fosse dettato dal suo stesso istinto di sopravvivenza. 

Eppure dietro alle idee chiare e sovversive di un mondo al femminile che grazie alle donne come lei, sta emergendo ci sono stati anche grandi dispiaceri: la morte della mamma e del fratello più di recente, ma soprattutto la morte del primo marito dopo solo un anno di matrimonio a seguito di un incidente stradale. Un evento che ha segnato profondamente l’arte di Judy Chicago che ne ha risentito in preda allo sconforto per almeno dieci anni. 

Nata nel 1939 con il nome di Judith Sylvia Cohen, Judy assume il cognome  Chicago dopo essersi ribellata alla convenzione del sistema secondo il quale è affibbiato il cognome paterno alla nascita dei figli e quello del coniuge una volta sposati. Questo processo di riappropriazione della propria identità senza distinzioni di genere, sarà soltanto uno dei passi compiuti in una società tutta al maschile in cui le donne hanno poca voce, soprattutto nel contesto artistico. Le opere iniziali di Judy includono un periodo minimalista di scultura, in totale controtendenza rispetto all’espressionismo astratto del tempo e diverso rispetto al minimalismo proposto dai coetanei Robert Irwin, Ed Ruscha, Larry Bell o Dennis Hopper. Le sculture squadrate e spigolose di Chicago si tingono di rosa, rosso, arancio, blu, verde e giallo pastello in una palette tutta al femminile che contrasta totalmente con le linee squadrate, “maschili” della composizione (Trinity,  Sunset Squares). 

Terminati gli studi all’UCLA con un master in Belle Arti, gli anni a seguire sono anni dominati dai motori che irrompono in ogni scena della quotidianità e dal sapore decisamente maschile. Preso atto del ruolo marginale che la donna riveste nella società, nel mondo dei motori in particolare, Judy sfida i gender e le classi sociali iscrivendosi a un corso di auto-body-school composto da 250 uomini in cui impara a pitturare macchine con l’utilizzo delle bombolette spray. Così, mentre l’arte di Al Bengston e Craig Kauffman si veste di motori, l’arte di Judy si concretizza direttamente sui cofani delle macchine (Car Hoods) con la rappresentazione dell’utero in un’associazione di colori primari e secondari.

Lo spray avrà sempre un ruolo dominante nella sua arte, anche sulla tela, perché come lei dice: “È in grado di miscelare perfettamente colore e canvas”. 

Comincia a produrre opere su larga scala negli anni ’70 quando partecipando all’esposizione “Sessualità femminile/Identità femminile” alla galleria Womanspace fondata in collaborazione con Miriam Shapiro, propone le grandi tele di Let It All Hang Out (Lascia stare tutto), Heaven Is For Men Only (Il paradiso è solo per uomini): una satira in chiave di colori e forme contro la società patriarcale. È dello stesso periodo Reincarnation Triptych (Trittico della reincarnazione) dedicato a tre grandi scrittrici del passato tra le più prolifiche nella storia della letteratura: Madame de Staël, George Sand e Virginia Wolf, con le quali celebra i duecento anni dalla nascita del movimento femminista e un nuovo tassello nel proprio percorso artistico. Dalle opere di grandi dimensioni passando per The Birth Projects (1980-85) Chicago affronta il tema della religione analizzando la Genesi secondo la quale si evince che un dio maschio ha creato un maschio umano, Adamo, senza il coinvolgimento di una donna. Secondo Judy Chicago, l’analisi della Genesi rivela un:  “primordiale sé femminile nascosto tra i recessi dell’anima … la donna parto è parte dell’alba della creazione”. Nell’opera complessa, composta da un centinaio di opere di medie e grandi dimensioni, l’artista ha coinvolto 150 donne, lavoratrici e madri, che hanno lavorato con macramé e trapunta, alle opere utilizzando fili dallo stesso gradiente di colore utilizzato come base nel dipinto della Chicago. Immagini drammatiche in cui compaiono scene di parto, per cui il grido di dolore, carnale, diventa talmente intenso da allungare le immagini fino a deformarle e a rendere il grido e il ricamo un tutt’uno.

 

Ispirato ai colori e alla luminosità delle pitture del Rinascimento, è invece la serie composta da disegni, dipinti, intrecci, carta patinata e rilievi di bronzo, di Powerplay (1982-87): l’apoteosi del rifiuto alla mascolinità abominevole dell’uomo che tra abuso di potere e dominanza sul genere femminile finisce per sovrastare l’intero mondo senza lasciare superstiti e distruggendone la bellezza. Il risultato che ne deriva è rappresentato da immagini forti e violente fra le quali l’immagine di un uomo che urina sulla natura producendo rifiuti tossici che inevitabilmente contaminano le generazioni a seguire, flagellandone l’esistenza.  

In The Holocaust Project (1985-93), lavoro composto a quattro mani in collaborazione con il marito Donald Woodman, fotografo, i coniugi analizzano il tragico evento dell’Olocausto, e dell’inevitabile confronto con l’insegnamento religioso ebraico impartitole da bambina. Nel lungo interrogativo i coniugi cercano di dare risposte a domande quali l’oppressione, l’ingiustizia e la crudeltà umana, per le quali affermeranno che si è trattato di  “un viaggio nell’oscurità dell’Olocausto e fuori nella luce della speranza. È basato sul viaggio – intellettuale, fisico ed emotivo – che io e Donald abbiamo fatto … Affrontare e cercare di capire l’Olocausto, per quanto doloroso possa essere, può portare a una comprensione molto più ampia del mondo in cui viviamo. La nostra speranza è che questo contribuirà a un impegno individuale e collettivo per intraprendere il vasto progetto di trasformarci e nutrire la nostra umanità, creando così un mondo più pacifico ed equo”.

Dopo essere stata aspramente valutata dalla critica Judy Chicago si trasferisce a Belen,  in New Mexico dove chiusa nella camera da letto ripercorre le sue tappe a partire da quando, bambina di quattro anni, fu iscritta all’Art Institute of Chicago per imparare a disegnare, fino all’età adulta e a quel che la maturità comporta in termini di perdita di affetti e domande in riferimento al sè individuale e sociale. La produzione si completa di 140 disegni che la riportano ai temi iniziali e che costituiscono le opere dell’Autobiografia per un Anno: Immagini forti ed aspre che escono sotto forma di disegno su semplici fogli formato A4 nei quali esemplifica la sua crisi esistenziale dovuta alle perdite affettive, alle insicurezze in termini di donna e di artista con le emozioni contrastanti e frustranti.  

Tuttavia il capolavoro indiscusso di Judy Chicago rimane l’installazione The Dinner Party al Museum of Modern Art di San Francisco nel 1979. Pietra miliare del XX secolo l’opera è stata vista da oltre 100.000 persone, alcune delle quali erano presenti alla serie Lecture dell’ICA in cui Judy Chicago, intervistata dal direttore del museo Alex Gartenfeld, ha risposto alle domande di un pubblico affettuoso che negli anni precedenti ha partecipato alle sue opere vivendo in prima persona quello che fu all’inizio degli anni ’70 il primo, vero, manifesto artistico del femminismo. L’ambizioso progetto, una sorta di ultima cena al femminile in celebrazione delle donne che hanno contribuito alla parità di genere e facendo leva sui lavori prettamente femminili, ha richiesto l’intervento di 400 persone ed è stato esposto fino al 2007 all’Elizabeth A. Sackler Center for Feminist Art al The Brooklyn Museum. Si componeva di una tavolata triangolare (la triade divina) di 15 metri di lato, sulla quale comparivano i nomi delle 999 donne più le 39 (13x 3: i dodici apostoli + Gesù Cristo moltiplicati per la triade divina) rappresentate con il posto d’onore a sedere, tra queste compaiono: Georgia O’Keeffe, la regina d’Egitto Hatshepsut, l’imperatrice bizantina Teodora, la suora medievale Hildegard of Bingen, l’attivista americana Sojourner Truth, l’esploratrice Sacajawea, le pittrici Lavinia Fontana, Elizabeth-Louise-Vigée-Lebrun, Adélaïde Labille Guiard, Angelica Kauffman, Berthe Morisot, Paula Modershon-Becker Käthe Kollowitz, Artemisia Gentileschi, Mary Cassat e Louise Nevelson, le fotografe Gertrude Käsabier e Dorotea Lange e la scultrice Barbare Hepworth,. 

Riccamente apparecchiata con le medesime posate d’argento, calici di cristallo e tovaglioli di tessuto, la particolarità dell’opera, al di la del significato simbolico, sta nella lavorazione centrale del piatto in porcellana realizzato appositamente da Judy Chicago in in modo univoco e caratterizzante: sono rappresentate vagine e farfalle, simbolo di liberazione, miste alla caratterizzazione del personaggio simbolicamente a sedere. 

Un’artista multiforme che ha spaziato dalla pittura alla scultura, dal vetro alla ceramica, dal ghiaccio secco alla pirotecnica, che ha ricevuto numerose onorificenze nel tempo e che solo recentemente l’hanno portata all’esposizione del suo lavoro in più mostre sia negli Stati Uniti che in Europa. La sua fama l’ha portata ad essere riconosciuta nel 2018 tra le 100 persone più influenti secondo Time Magazine e l’artista più influente secondo Artsy Magazine. È stata artista, insegnante d’arte e autrice di libri ma al di la dei prodigi in ambito artistico, a Judy Chicago va riconosciuto il merito di aver sovvertito per oltre cinque decenni, l’ordine del sistema, rimanendo ferma nel suo impegno per il potere dell’arte femminile come veicolo per la trasformazione intellettuale e il cambiamento sociale e come diritto delle donne di impegnarsi nel più alto livello di produzione artistica, Un processo che non è ancora finito, ma come dice lei di fronte a tutte quelle donne accorse per ringraziarla per l’impegno atto a garantire il lavoro artistico femminile:” lascia ben sperare”.

 

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